L’ideologia della macchina

L’ideologia della macchina

This is a guest post only in Italian.

Ospito con piacere un estratto dall’ultimo libro di Enrico Manicardi, “L’ultima era”, pubblicato da Mimemis Edizioni, acquistabile anche presso il sito www.enricomanicardi.it

«La tecnologia che promette di liberarci in realtà ci rende schiavi regolando le nostre attività in, e attraverso, lavoro e tempo libero; macchine e fabbriche inquinano i nostri ambienti e distruggono i nostri corpi; i loro prodotti ci offrono l’immagine della vita reale invece della sua sostanza»  Aufeben, n.4, estate 1995.

Nel mondo delle macchine, stiamo diventano macchine a nostra volta. Come tanti automi telecomandati siamo chiamati soltanto a seguire le istruzioni che ci vengono impartite e ad adempiere ai comandi imposti. In un concetto, dice bene Umberto Galimberti, nel mondo delle macchine siamo tutti chiamati a funzionare, proprio come funzionano le macchine.

Non c’è un dittatore umano che ci costringa a trasformarci in congegni dal rendimento utile, è la mentalità che abbiamo acquisito che ci dirige: la nostra educazione, la nostra istruzione, la nostra accettata libertà vigilata, i nostri sbrigativi rapporti con gli altri (e con noi stessi), la nostra indotta convinzione di non poter fare altrimenti. L’inganno che ci confina al ruolo di cinghie di trasmissione del Grande Motore, trova nell’ideologia della Macchina la sua stessa natura svelata, persino etimologicamente.

Il termine “macchina”, notava Remo Bodei (1), deriva proprio dalla parola greca mechané, che significa “inganno”, “artificio”, “astuzia”. «Testimonianza dell’antica illusione che si possa trasformare l’ambiente eludendone le leggi» (2), la macchina è il risultato della manipolazione della Natura finalizzata a sovvertirne il corso per porla al servizio degli scopi stabiliti dagli umani. «Preposta alla costruzione di entità artificiali, di trappole tese alla natura per catturarne l’energia e volgerla in direzione dei vantaggi e dei capricci degli uomini», la macchina appartiene «al regno dell’astuzia e di ciò che è “contro natura”», ne ha concluso il celebre filosofo della scienza italiano (3).

In questa guerra contro natura finalizzata alla sottomissione della Natura, anche gli umani (che sono Natura) diventano terreno di conquista della macchina, suo luogo di soggezione, suo strumento. Asserviti da quella stessa logica del dominio che rivolgono verso la Terra, ne replicano (come pedine) il potere d’intervento. Il mito di una forza meccanica che domina tutto per il bene della Società si fa ideologia, riversando contro quegli stessi umani che l’hanno pensata la pratica di un adattamento passivo ai bisogni del Potere. Il mondo diventa insomma un immenso campo di battaglia ove individui sempre più dipendenti dalle macchine inventano ogni giorno nuove macchine per assoggettare tutto ciò che è vivo al dominio delle macchine, compresi loro stessi.

Chiuso il cerchio delle autogiustificazioni, tutto corre e concorre a rafforzare il paradigma del dominio. La tecnologia, in quanto incarnazione dell’ideologia della macchina (e cioè della perfezione meccanica che tutto controlla e tutto dirige) ci addestra appunto quotidianamente ad una dimensione mentale e sostanziale intrisa di rapporti di forza. Per noi, come per Bodei e per l’intero schieramento in riga dell’intelligencija internazionale, il dominio è talmente parte del nostro modo di pensare che lo consideriamo un’espressione stessa della natura umana, non della cultura.

Invasi dalla tecnica e pervasi dalla concezione del mondo che questa celebra, pensiamo che l’essere umano abbia un’innata propensione al dominio della Natura, e che l’abbia sempre messa in pratica trasformando la Terra, plasmandola, beffandola e rubandole appena possibile le forze per porle ubbidienti al servizio dei propri scopi. Che fosse l’antica aspettativa di creare artifici che infrangessero leggi naturali al fine di destare sorpresa (porte automatiche, pupazzi semoventi, cucù che compaiono dagli orologi a pendolo), o fosse la più moderna visione utilitarista della Scienza che reclude la Natura nei laboratori per vivisezionarla e trarne profitto, quello che continua a guidare il nostro giudizio è la convinzione che l’unica relazione possibile con la Terra sia quella di padroneggiarla, comandarla, starle sopra, metterla sotto. Qualsiasi altro approccio è ritenuto poco pratico, fantasioso, utopico; e se esistono esempi di vita vissuta che screditano quel dogma, sono quegli esempi che debbono essere presi di mira e osteggiati, non il dogma.

Tutto, insomma, pur di difendere la visione dominante e pensare che il mondo delle macchine sia un mondo inevitabile e neutrale. Tutto pur di negare che la logica che muove la tecnologia (e cioè quella del dominio della Natura e del suo controllo) sia figlia di un imprinting ideologico tipico di un certo modo civilizzato di vedere le cose. “Da che mondo è mondo, la tecnologia è sempre esistita”, si sente di solito affermare da chi intende darne per scontata l’immanenza. “La tecnologia non è né buona né cattiva”, alza la posta chi in genere l’approva ma rifiuta di confrontarsi sulla sua natura.

Che cos’è la tecnologia?

Per mettere a fuoco la “questione tecnologica”, e provare a capire se la tecnica sia o non sia un fenomeno alieno da implicazioni ideologiche, occorre prima di tutto cercare di comprendere cosa sia la tecnologia.

Altrove ci siamo occupati in maniera approfondita dell’argomento (4). Sintetizzarne per sommi capi i passaggi essenziali renderà forse più chiara la comprensione di quanto questo problema riguardi quel nostro presente in continua degenerazione.

Di solito, quando si parla di tecnologia, il pensiero corre subito all’immagine di un ritrovato elettronico: il cellulare, il computer, la sega a motore, il martello pneumatico. Non vi è dubbio che tutti questi prodotti siano una diretta emanazione della tecnologia, e non vi è dubbio nemmeno che siano proprio questi oggetti (e il loro imperversare) a chiamarci a riflettere sulla “questione tecnologica”. Tuttavia, la tecnologia non è solo quel dato e specifico rimedio industriale. Essa è infatti innanzitutto un processo, un fenomeno cioè molto più complesso del prodotto finale in cui viene sintetizzata; un processo capace di prescindere dalla stessa forma materiale in cui è in grado di trasfondersi di volta in volta.

La distinzione tra prodotto tecnologico e utensile rende meglio comprensibile la nozione stessa di tecnologia.

Filosofi, scienziati, cattedratici e consulenti di corte sono in genere compatti nell’affermare che l’essere umano abbia sempre fatto uso di tecnologia, e questa supposizione si fonda proprio sulla confusione tra le nozioni di prodotto tecnologico (o tecnologia) e utensile (o attrezzo, strumento in senso stretto). Dall’arco primitivo fino alla cluster bomb, si considera cioè la tecnologia come un perfezionarsi continuo di rimedi attraverso i quali il genere umano avrebbe via via imbrigliato l’ambiente circostante assoggettandolo al proprio volere. Una simile interpretazione, oltre che semplicistica, si mostra anche palesemente ideologica.

Conferendo infatti alla tecnologia un inesistente attributo di “completamento” delle facoltà  umane, la si rende di fatto impenetrabile a qualsiasi critica, perché se i moderni ritrovati tecnologici fossero davvero la semplice evoluzione dei rudimentali attrezzi usati dall’umanità primitiva, lo sviluppo della tecnica non sarebbe altro che un fattore innato all’evoluzione umana, e dunque opporsi alla tecnologia significherebbe opporsi alla nostra stessa natura. Per impedire ogni critica alla tecnologia non c’è modo migliore se non quello di considerarla come uno sviluppo naturale dell’umanità e non come un suo sviluppo culturale; la qual cosa però è semplicemente un controsenso, posto che la tecnologia, in quanto invenzione, è sempre un artificio, e dunque qualcosa che non è “natura”.

Ma considerare la tecnologia come il semplice sviluppo di un utensile ha anche una funzione fuorviante. Infatti, ponendo l’accento su di una valutazione puramente quantitativa di un certo preteso sviluppo umano, si tralascia di considerare la sostanza di questo sviluppo e i suoi aspetti qualitativi. Che sono proprio gli aspetti sui quali verte la differenza tra utensile e tecnologia.

Costruirsi un attrezzo non è soltanto un’attività più semplice di quella intesa a realizzare un telefono cellulare, ma è un’attività che non ha nulla a che fare con questa, e che non può in alcun modo esserle assimilata. Costruirsi una lancia, per esempio, o una freccia o una leva, non è impossibile se ci si trova immersi nella Natura. Certo, le tecniche di realizzazione di un utensile possono essere molto complesse, e non è raro che la sua costruzione impegni notevoli energie e parecchia inventiva. Ma l’energia, la creatività, l’estro sono competenze umane. Chi di noi, invece, sarebbe in grado di realizzare un telefono cellulare con le sue sole forze?

Ammettendo pure di riuscire a concentrare l’inventiva dell’intero genere umano in un solo individuo, la questione non cambierebbe: chi sarebbe capace infatti di procurarsi autonomamente l’acciaio, il silicio, il coltan e tutti gli altri materiali necessari per realizzarne i circuiti miniaturizzati e assemblarli? Chi sarebbe in grado poi di realizzare i ponti radio (comprensivi di tralicci) e unirli in una rete indispensabile a “coprire” le zone di ricezione? Chi potrebbe garantire la costante manutenzione delle migliaia di stazioni base (celle)? Chi, da solo, potrebbe stabilire i parametri legali di accesso alle bande di frequenza, e imporli a una utenza generalizzata? Nessuno. Semplicemente nessuno. Nemmeno il più geniale degli ingegneri elettronici sarebbe in grado, da solo, di realizzare e organizzare tutto quanto serve al funzionamento di un “semplice” telefonino. E questo perché la tecnologia non è solo un’evoluzione “quantitativa” di un utensile, ma qualcosa di sostanzialmente differente. Essa, si diceva, non è un oggetto ma un processo: una metodologia operativa composita che implica e definisce l’intervento, il coordinamento, la gestione di forze sociali, logiche produttive, prerogative istituzionali inaccessibili alle competenze di ogni singola persona.

Considerare il sistema meccanico ad asta e bilancieri nel motore a quattro tempi come l’evoluzione tecnica della leva è quindi inesatto, così com’è sviante concepire l’arco primitivo come un ritrovato allo stato grezzo di un fucile. L’uno (il ritrovato tecnologico che spara o che apre e chiude le valvole del cilindro) e l’altro (l’utensile che scocca frecce o che ruota attorno ad un fulcro) non sono oggetti diversi perché realizzati da persone più o meno “evolute”. L’evoluzione non c’entra, tanto è vero che nel mondo che si ritiene progredito si fa ancora un largo uso di utensili (leve, martelli, coltelli, raschiatoi, aghi, ami, cappi, nodi) e, inoltre, la complessità di alcuni attrezzi realizzati da individui non-civilizzati è un fatto facilmente riscontrabile.

Seppur di semplice fattura per i raccoglitori-cacciatori che li hanno pensati e costruiti con le loro mani, molti dei loro strumenti sono stati giudicati complicatissimi per la mente tecnologica (e disavvezza all’uso della manualità) dei civilizzati. «Smontate e spedite a New York o Londra, le trappole boscimane giacciono ora impolverate negli scantinati di centinaia di musei […] perché nessuno sa immaginare come sia possibile rimontarle», ha ricordato il celebre antropologo americano Marshall Sahlins (5).

Rimedio tecnologico e attrezzo, dunque, non sono oggetti diversi perché realizzati da “umanità diverse”, ma oggetti diversi perché usati in modo diverso e pensati con un approccio mentale opposto. Mentre l’attrezzo agevola un’interazione diretta tra Individuo (che lo ha realizzato in piena autonomia), Strumento (il risultato di quella inventiva) e Ambiente (luogo ove l’attrezzo sarà utilizzato), il rimedio tecnologico immette invece l’utilizzatore (che lo ha solo passivamente comprato per usarlo) in una prospettiva che scavalca ogni possibile relazione con l’ambiente, ponendolo in contatto solo con la “volontà di potenza” che l’oggetto tecnologico esprime (e cioè con il fine da perseguire, quello per il quale il bene è stato creato, testato e venduto): uccidere l’animale, abbattere l’albero, demolire il muro, comunicare con qualcuno che non è presente di persona.

La tecnologia, insomma, è qualcosa di concettualmente diverso dall’utensile: è qualcosa che può essere realizzato soltanto in un mondo strutturato, fondato sulla divisione del lavoro e sullo sfruttamento della Natura. In una parola sola, la Tecnologia è la sintesi meccanica del mondo civilizzato: la sintesi delle forme di uso, consumo e contaminazione necessarie al funzionamento della Megamacchina.

La falsa neutralità della tecnologia

Questa prima conclusione spiega da sola perché la tecnologia non possa essere considerata neutrale. Eppure, è ormai un luogo comune giudicarla proprio così: un fenomeno neutrale; qualcosa di alieno al complesso dei valori che fondano il mondo che la produce e la diffonde, e passibile di dimostrarsi positiva o negativa a seconda dell’uso che di essa si faccia.

Come se fosse una manifestazione calata divinamente dal cielo, la tecnologia sarebbe insomma estranea al modo di pensare che la concepisce, e la capacità di sprigionare effetti favorevoli o sconvolgenti sulla vita di tutti dipenderebbe solo dalla volontà umana che la dirige.

Impostata in questi termini, la questione fa immediatamente sorgere un interrogativo: come può la tecnologia essere diretta secondo una prospettiva immaginata dal singolo se essa è appunto un processo inaccessibile alle forze del singolo? E infatti basta guardarsi attorno, e constatare la moltitudine di effetti invalidanti che essa semina (dal saccheggio del territorio all’abitudine alla standardizzazione), per rendersi conto di come la tecnica sia semplicemente incontrollabile. In un mondo tecnologico, non sono mai le volontà umane a determinare gli effetti di una tecnologia, ma gli effetti della tecnologia a condizionare la volontà umana; e la condizionano in modo così determinante da indurla spesso ad accettare conseguenze diametralmente opposte a quelle desiderate.

Facciamo un esempio: chi metterebbe in discussione il fatto che l’utilizzo di una comune autoambulanza serva il nostro bene? Tuttavia, guidare un’autoambulanza significa anche contaminare l’ambiente (con i suoi gas di scarico, con i suoi dischi dei freni, con il suo consumo di pneumatici, ecc.); significa anche percorrere strade che hanno lastricato la terra, traforato catene montuose, coperto o frenato lo scorrere dei fiumi e sbarrato vie di accesso allo spostamento di animali, persone, sementi. Guidare un’autoambulanza significa anche utilizzare impianti (meccanici e sanitari) altamente sofisticati i cui elementi di composizione provengono dallo sfruttamento ecologico del pianeta, e avvalersi dei suoi servizi significa fare uso di farmaci sperimentati sugli animali (e non solo).

Tutti effetti ineliminabili all’uso dell’ambulanza. Si dirà che il gioco vale la candela, ma anche dando per ammessa questa valutazione di convenienza, resta il fatto che quegli effetti indesiderati si producono lo stesso, contro la nostra volontà. Anzi, trovarsi a ragionare in termini di opportunità rispetto ai danni che la tecnologia provoca, ci rende ancora più cinici in quanto ci porta a giustificare ciò che non avremmo comunque voluto veder realizzato.

Insomma, persino quando sembra essere sviluppata per il nostro bene la tecnologia ci rende irresponsabili di quello che facciamo, dei danni che arrechiamo, delle miserie che procuriamo come effetti di ritorno del suo utilizzo; e ciò per una ragione molto semplice: perché con la tecnologia non siamo più noi a fare le cose, ma le macchine.

Provate ad abbattere un albero millenario con la sola forza delle mani, o con un attrezzo! Se pensiamo a quanto sia facile invece segarlo con una lama a motore con denti a due punte, o quanto sia ancora più veloce sradicarlo con un bulldozer, abbiamo un quadro esplicito di come la tecnologia ci trascini, volenti o nolenti, verso un vissuto deresponsabilizzante e incline a giustificare tutto. In quanto espressione diretta della “volontà di potenza”, la tecnologia si occupa infatti soltanto di perseguire quella, sovrastando, schiacciando e spazzando via tutto il resto, compreso appunto il nostro senso di responsabilità per quello che si sta facendo.

Diversamente dall’utensile che coinvolge sempre la persona che lo realizza rendendola partecipe dell’interazione tra utensile e ambiente, la tecnologia scalza l’individuo non solo dalla realizzazione del prodotto (che viene appunto soltanto comprato e non creato) ma anche dal campo di azione del prodotto: all’attiva partecipazione personale cui chiama il funzionamento dell’utensile (per far lavorare un arco, un boomerang o un lazo occorre sviluppare particolari abilità) corrisponde la passiva estraneità di chi usa l’oggetto tecnologico.

Accendere l’interruttore, schiacciare il pedale, battere il tasto, spingere il pulsante, spostare il cursore sono le sole mosse richieste a chi fa uso di rimedi tecnologici, e gli effetti di quella inerte partecipazione possono essere devastanti senza che di ciò ci si possa anche solo rendere conto: con l’accensione di una sega elettrica, appunto, è possibile abbattere in pochi minuti un albero che ha impiegato secoli per crescere; con un semplice giro di chiavi è possibile accendere un motore a scoppio che immette quantità inimmaginabili di inquinanti nell’atmosfera; con il movimento di un indice su di un grilletto di un mitragliatore è possibile fare strage di elefanti; con una elementare pressione sul pulsante della cloche è possibile scaricare una bomba atomica da un aeroplano e provocare una strage incommensurabile.

Se nel mondo delle macchine stiamo diventando macchine è anche perché nel mondo delle macchine noi non esistiamo più. E questa progressiva espulsione dell’umano dal mondo degli umani è semplicemente inarrestabile, se non fermando la tecnologia per intero. La tecnica, infatti, può solo correre verso la via di una sempre maggiore invasione della tecnica, è nella sua logica. Conseguentemente, più aumenterà l’uso di ritrovati di tecnologia, più saranno questi ultimi a prendere il sopravvento sulla vita, incrementando ogni nostra distanza emozionale verso le sorti del mondo.

Figlia della logica stessa che la produce (logica della perfezione meccanica, dell’efficienza operativa, della velocità di esercizio, dell’ordine e dell’obbedienza), la tecnologia è l’incarnazione del mondo che la promuove e la diffonde. Ne supporta dunque tutti i valori, tutte le categorie, tutte le forme di alienazione. Parlare di tecnologia significa parlare di divisione del lavoro, di specializzazione, di efficienza e competitività, di produttività, di sviluppo, di dominio sulla Natura. Significa parlare di accentramento delle funzioni, di dipendenza dal mercato, di freddezza ed operatività, di distanza emozionale, d’inflessibilità, d’irresponsabilità, appunto. Che sono, guarda caso, valori opposti a quelli portati dall’attrezzo: e cioè flessibilità, decentramento, relazione, eguaglianza, responsabilità, autonomia (autonomia dagli esperti, dal mercato, dal lavoro produttivo).

Insomma, la tecnologia è tutt’altro che neutrale, e l’idea che essa sia soltanto un fenomeno neutro non è un’idea diffusa a caso: serve a convincere. Ci spinge cioè a sottovalutare il potere invasivo e pervasivo della tecnologia, la sua capacità manipolativa (dell’ambiente ma anche della percezione umana) e quindi ci induce a credere che essa non sia un problema ma un’opportunità. La tecnologia, invece, è un problema. Un grosso problema!

Parliamoci chiaramente: per avere quei rimedi tecnologici di cui andiamo tanto fieri bisogna sventrare montagne, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare la Terra. La tecnologia non cade da sola dall’alto. Per disporre di quei ritrovati tecnologici di cui ci serviamo oggi non ci vogliono soltanto le grandi concentrazioni pubblicitarie che ne reclamano le prestazioni, i mass media che ne diffondono il bisogno e le imprese commerciali che li vendono a noi consumatori resi succubi dai relativi servizi; ci vogliono anche le fabbriche che li producono e le miniere dalle quali predare tutto quanto serve per costruirli: bauxite, ferro, rame, nichel, manganese, silicio, coltan, caolino, oro…

Nei fatti, per ottenere quei rimedi tecnologici di cui oggi andiamo tanto fieri occorre schiavizzare migliaia di persone che, soprattutto nel “sud” del mondo, sono costrette a sacrificare 16-18 ore al giorno della loro tormentata esistenza per strappare dal suolo gli elementi necessari a realizzare i nostri computer, i nostri forni a microonde, i nostri telefonini, i nostri navigatori satellitari, i nostri eco-impianti di riscaldamento, i nostri pannelli fotovoltaici…

Seppelliti in giacimenti minerari bui e malsani, scavati spesso a centinaia di metri sotto la superficie terrestre, individui martoriati e ricattati dai meccanismi impietosi dell’economia sono costretti ogni giorno ad una vita d’inferno, prima di ammalarsi e morire spesso dopo sofferenze atroci. Il tutto per garantire appunto la perpetuazione di quel tecno-mondo che noi, destinatari ultimi dei suoi prodotti finiti e ripuliti, ci permettiamo pure di considerare neutrale. C’è forse qualcuno di noi che gradirebbe lavorare in miniera? C’è forse qualcuno di noi che sarebbe disposto a veder spezzata la propria esistenza per consentire il funzionamento di un sistema cruise control nella macchina nuova fiammante dell’ultimo dei tecno-consumatori del mondo ricco?

Quello che si dovrebbe aver chiaro, allora, ne ha concluso John Zerzan, è che quando si parla di “tecnologia”, si parla di schiavitù. Una simile chiarificazione, peraltro, consente di rispondere da sola al quesito che qualche favoreggiatore di un eco-mondo-tecnologico non manca mai di porre per cercare un conforto alla propria visione ideologica: è possibile fare un uso sostenibile di tecnologia? Basta mettere le parole giuste al loro posto e la risposta viene da sé: è forse possibile fare un uso sostenibile della schiavitù?

Note:

(1) Cfr. R. BODEI, Le astuzie tecniche della natura, in: «Il Sole 24 Ore», 11 Settembre 2011, n.248, pag. 33.

(2) Ibidem, pag. 33.

(3) Ibidem, pag. 33.

(4) Sulla critica alla Tecnologia si veda: E. MANICARDI, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia, Mimesis, Milano – Udine 2010, pag. 419ss.

(5) Cfr.  M. SAHLINS, L’economia dell’età della pietra (1972), Bompiani, Milano 1980, pag. 89.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *