Spinning the Net Out

Il movimento centrifugo della Rete

Pew Internet released a report on Social Isolation and New Technology contradicting previous studies on the subject:

This Pew Internet Personal Networks and Community survey finds that Americans are not as isolated as has been previously reported. People’s use of the mobile phone and the internet is associated with larger and more diverse discussion networks. And, when we examine people’s full personal network – their strong and weak ties – internet use in general and use of social networking services such as Facebook in particular are associated with more diverse social networks.

I also think that Facebook users have real-life connections as well, but since Facebook has spread massively, my feeling is that the pre-existing real-life relationships are being sucked into Facebook too.

In the beginning, TV used to show and describe reality, and people would talk about what happened on TV. Starting around 20 years ago, I noticed that TV talked more and more about what happened on TV itself in a self-referencing way. I saw that mostly through other peoples’ TV sets since I don’t own a set myself. Seeing TV only rarely makes me more aware of the macro-changes. At a certain point, TV didn’t just show and talk about reality any more, but made reality itself, which was then commented upon by TV itself and by other media.

The Net followed a similar but slightly different path. A few years ago, the Net was limited to a small percentage of the population and it was immediately self-referential, encouraged by the easy mechanism of the link system.

Then, as social networks spread, people populated Facebook and similar sites. Recently, I noticed that real-life conversations got more into “what happened on Facebook” and this in itself fuelled the growth of the social network itself. People didn’t want to feel “left out” so they flocked to Facebook. Suddenly, people would feel left out if they weren’t present on the Net and in its happenings, more than if they weren’t present in face-to-face meetings.

The Net got priority. Without it, many real meetings can’t happen anymore as they are organized as Facebook events. Since we spend more and more time online, without the Net, we could even become short of arguments in our real-life conversations.

Many people into technology welcome the interaction between the Net and real life, seeing that as something which balances both and which takes the Net out of a cage. The problem is that the process of digitalization of reality is quite greedy and tends to incorporate every aspect of reality, absorbing the wholeness of reality starting from the mental level, representing it digitally as if everything could be translated into bytes. So in the end, reality becomes sucked into the Net, which has to be lifestreamed or lifelogged in order to become realized. Reality can be considered real only when can become digitalized.

Un recente rapporto di Pew Internet sull’isolamento sociale e le nuove tecnologie sembra contraddire le precedenti indagini sulla materia.

Questo studio di Pew Internet Personal Network and Community sostiene che gli americani non sono così isolati come pareva dalle precedenti ricerche. L’uso del telefono cellulare e della Rete porta ad allargare e diversificare le reti di discussione, e quando esaminiamo le reti personali – con i loro legami più o meno forti – vediamo che l’uso dell’Internet, in generale, e la partecipazione a social networks come Facebook, in particolare, portano allo stabilirsi di differenti ambiti sociali di relazione.

Anch’io ritengo che gli utenti di Facebook abbiano rapporti umani nella vita reale ma, data la diffusione massiccia di Facebook, ho la sensazione che le preesistenti relazioni della vita reale tendano a farsi risucchiare in Facebook.

Un tempo la televisione proponeva descrizioni della realtà, e le persone discutevano di ciò che avevano visto sul teleschermo. Da una ventina d’anni, ho notato, le televisioni hanno cominciato a parlare sempre più di sé, in maniera autoreferenziale. La mia fonte sono gli apparecchi degli altri, perché io non ne possiedo uno. Guardare la televisione di rado mi rende più consapevole dei grandi cambiamenti. A un certo punto, invece di far vedere e commentare la realtà, la televisione ha cominciato a creare essa stessa una realtà, e a commentarla insieme agli altri mezzi di comunicazione.

La Rete ha seguito un percorso analogo, sebbene lievemente diverso. Qualche anno fa era ancora appannaggio di una ristretta percentuale di popolazione ed era autoreferenziale da  subito, grazie anche al facile meccanismo dei link.

Poi con la diffusione delle comunità virtuali la gente si è riversata su Facebook e su altri siti del genere. Ultimamente ho osservato sempre più spesso persone intente a parlare di «cosa succede su Facebook»: un fenomeno che incrementa ulteriormente la crescita della comunità virtuale stessa. Nessuno vuole essere tagliato fuori, così tutti si accalcano in Facebook. Ci si sente più emarginati a non essere presenti in Rete che a non avere incontri reali.

La Rete è diventata prioritaria. Addirittura certi eventi della vita reale senza di essa non esiterebbero, poiché vengono organizzati come «eventi di Facebook». A causa del gran tempo trascorso online, senza la Rete ci si sentirebbe a corto di argomenti nelle conversazioni vis-à-vis.

Molti esperti delle nuove tecnologie apprezzano l’interazione fra Rete e vita reale, convinti che così si crei un equilibrio tra i due campi, facendo uscire la Rete dalla sua gabbia. Il problema è che la digitalizzazione della realtà è un processo onnivoro che tende a incorporare ogni aspetto della vita, assorbendo la totalità della realtà partendo dal livello mentale, rappresentandolo come se ogni cosa potesse essere tradotta in bytes. Così, in definitiva, la realtà viene risucchiata dalla Rete e, per poter real-izzarsi, deve essere archiviata con le tecniche di lifelogging. La realtà può viene considerata reale solo nel momento in cui può avere una realtà digitale.

The Digitally Divided Self

L’Io digitale diviso

There’s an unusual but apparent alliance between two philosophies which are barely aware of and rarely come into contact each other, which conjure against the physical reality and the body. The first “philosophy” is represented by what have variously been called Cyberspace, Technopoly, Cyburbia and other names.

I prefer to define it as “The Digitalization of Reality,” wherein more and more human activities are being translated into bytes. Work, communication, media, entertainment, friends, dating, sexuality, culture, shopping, politics and causes are among the growing number of human needs that have gone digital.

While the Internet was something which earlier we mostly visited, now we are inhabiting the virtual worlds full-time and engineer them according to our mental projections. The Cartesian dream of a mind without a body has almost been fulfilled (even though in his old age Descartes, in Passions of the Soul, affirmed that “the soul is jointly united to all the parts of the body”).

This separation has a long history of Western thought starting from the Judeo-Christian separation between body and soul up to people like the transhumanist Hans Moravec, the artificial intelligence researcher Marvin Minsky, or the singularity guru Raymond Kurzweil who want to download the biological human mind to a safer mechanical medium in order to achieve nothing less than immortality.

C’è un’alleanza insolita ma solo apparente tra due filosofie che sono a malapena a conoscenza una dell’altra e che raramente entrano in contatto tra di loro, che congiurano contro la realtà fisica e il corpo. La prima “filosofia” è rappresentata da ciò che è stato definito in vari modi come Ciberspazio, Technopoli, Cyburbia e altri.

Io preferisco definirlo come la “Digitalizzazione della realtà”, dove un numero crescente di attività umane vengono tradotte in byte. Il lavoro, la comunicazione, i media, il mondo dello svago, gli amici, gli incontri, la sessualità, la cultura, lo shopping, la politica e le cause socialli sono tra i bisogni umani in espansione che sono entrati nel digitale.

Mentre Internet all’inizio era un qualcosa che perlopiù visitavamo, ora stiamo abitando a tempo pieno nei mondi virtuali e li progettiamo in accordo alle nostre proiezioni mentali.  Il sogno Cartesiano di una mente senza il corpo si è quasi realizzato (anche se in tarda età Cartesio, ne Le passioni dell’anima, affermava che “L’anima è unita congiuntamente a tutte le parti del corpo”).

Questa separazione riflette un’ampia storia del pensiero occidentale, a partire dalla separazione Giudeo-Cristiana tra il corpo e l’anima, fino a persone come i transumanisti Hans Moravec, il ricercatore di intelligenza artificiale  Marvin Minsky o il guru della singolarità Raymond Kurzweil, che vuole fare un download della mente biologica umana in un supporto meccanico più sicuro per arrivare addirittura all’immortalità. Leggi tuttoThe Digitally Divided Self

L’Io digitale diviso

Mother Google

Mamma Google

This is an updated article of an older post. Some time ago, Gmail added another “much-needed” feature we all were waiting to see (italics mine).

How often do you try to chat with somebody and they don’t respond because they just walked away from their computer? Or maybe you’re in the middle of chatting with them just as they need to leave. But you still need to tell them something – something really important like you’ve moved, where you’re meeting…or ice cream! We need ice cream! This is why we built a way to chat with your friends even when they’re away from their computers. Now you can keep the conversations going with a new Labs feature that lets you send SMS text messages right from Gmail. It combines the best parts of IM and texting: you chat from the comfort of your computer, and your friends can peck out replies on their little keyboards.

It is quite amazing to read so many words in a single paragraph which convey the meaning of need, abandonment, attachment, nourishment. The whole passage reminds one of a baby who doesn’t want to get detached from the  person who provides care and attention. Our primary object-relationships are being transferred to technology and, Mother Google provides us her umbilical cord and the milk to nourish us.

I don’t believe in conspiracy theories and I don’t think that those words have been chosen carefully to manipulate people’s psyches. The digitalization of reality has gone so far that we are now substituting every human need, even the most basic ones, with technology. So those words are just the natural outcome of our intimate relationship with technology.

This feature of Google will be a panacea for anxious people who can’t detach themselves from the machine and the people whom they chat with and need to keep the connection.

Of course, people can block or stop the SMS messages at any time, but the silence of becoming isolated from the Net could become too eerie to bear. The pressures of the unknown neglected inner self asking for attention will probably be pacified again with some gadget connected to the big mama-net with its sweet bytes flowing down reminding us that we aren’t isolated anymore.

Questo è un articolo aggiornato di un post precedente. Qualche tempo addietro, Gmail ha aggiunto un’altra opzione “veramente necessaria” che tutto noi stavamo aspettando con impazienza (i corsivi sono miei):

Ti capita spesso di chattare con qualcuno e questi non rispondono perché si sono appena allontanati dal computer? Oppure sei in mezzo alla chat e devono andarsene? Ma necessiti ancora dire loro qualcosa – qualcosa di molto importante tipo che ti sei spostato, dove vi troverete oppure… il gelato! Abbiamo bisogno di gelati! Ecco perché abbiamo progettato un modo per farti chattare con i tuoi amici anche quando sono lontani dal loro computer. Ora puoi mantenere la conversazione attiva con una nuova caratteristica creata nei Labs che ti consente di mandare dei messaggi SMS direttamente da Gmail. Combina la parte migliore dell’Instant Messaging e dei messaggi SMS: chatti comodamente dal tuo computer e i tuoi amici possono mandare (peck out in inglese, letteralmente l’atto di beccare o piluccare il cibo da parte di un uccellino) le loro repliche dalle loro piccole tastiere.

E’ abbastanza sorprendente, in un singolo paragrafo, leggere un numero talmente elevato di parole che trasmettono il significato di bisogno, abbandono, attaccamento, nutrimento. L’intero paragrafo ricorda un bimbo che non vuole distaccarsi dalla persone che provvede attenzioni e cure. I nostri oggetti di relazione primari si stanno trasferendo verso la tecnologia e Mamma Google ci fornisce il cordone ombelicare e il latte per il nostro nutrimento.

Non credo nelle teorie conspirazioniste e non credo che tali parole siano state scelte in modo accurato per manipolare la psiche delle persone. La digitalizzazione della realtà è arrivata ad un punto tale che stiamo sostituendo ogni bisogno umano, anche i più basilari, con la tecnologia. Quindi tali parole sono solamente l’esito naturale della nostra relazione intima con la tecnologia.

Questa caratteristica di  Google sarà una panacea per le persone ansiose che non possono distaccarsi dalle tecnologie ee dalle persone con cui chattano e necessitano di mantenere il cordone ombelicale sempre connesso.

Naturalmente, le persone possono bloccare o fermare i messaggi SMS in ogni momento, ma il silenzio dell’essere isolati dalla rete potrebbe diventare troppo inquietante da sopportare. La pressione del proprio sé trascurato e sconosciuto, che chiede attenzione, verrà probabilmente sedato di nuovo da qualche gadget connesso alla grande madre delle Rete che con i suoi dolci byte che fluiscono ci ricorderà che non siamo più isolati.

Maybe I would Not Appreciate Pink Floyd’s Music if it was Digital

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The digitalization of reality, in its race toward incorporating more and more of human life, is  well advanced in the area of the media, probably because the media are already a mental construction, a half-way between a direct approach to reality and a mental interpretation.

The media had their physical counterparts and supports which, in time, became less and less “embodied.” Music production – and especially music reproduction, for instance – went from heavy equipment to small MP3 readers. Now we have virtually no physical equipment any more for music, nor for movies and, books themselves are going digital, being contained in small memory chips.

Damasio demonstrated that the brain can’t be understood without the body and the emotions which inform thought and decisions. Analogously, a piece of information without a physical support misses something. As with thoughts, we can’t really detach the media from their physical counterparts. Our relationship with music, for instance, is a multi-sensorial one, being not only auditory, but tactile and visual as well. Beside that, music is a social experience too. And we should not forget that we can feel an attachment to the physical support of music (in the form of LPs or, less, CDs) and paper books or magazines.

The New York Times recently published an article, “Serendipity, Lost in the Digital Deluge”, saying, “there is just too much information. We can have thousands of people sending us suggestions each day – some useful, some not. We have to read them, sort them and act upon them.”

I wrote in “Does the Internet Really Broaden Minds?” how the variety of sources available on the Net bring traffic only to a very restricted set of websites instead of broadening the scope of our search. The same applies to references to scientific papers and music where just 0.4 percent of tracks account for 80 percent of downloads. Researchers have found that when people are more connected to each other on the Net, they tend to concentrate on an even smaller number of sources.

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La digitalizzazione della realtà, nella sua corsa ad incorporare sempre più aspetti dell’umano, è particolarmente avanzata nell’area dei media, probabilmente perché questi sono già una costruzione mentale, una via di mezzo tra un contatto diretto con la realtà e un’interpretazione mentale.

I media hanno avuto i loro equivalenti fisici e i loro supporti i quali, nel tempo, sono diventati sempre meno “incarnati”. La produzione musicale, ad esempio, e in particolare la riproduzione della musica, è passata da pesanti attrezzature a minuscoli lettori MP3. Ora praticamente non abbiamo quasi più alcun supporto fisico per la musica, per i film e anche i libri stanno andando verso il digitale.

Damasio ha dimostrato che il cervello non può essere compreso senza il corpo e le emozioni che informano i pensieri e le decisioni. Analogamente, un frammento informativo senza un supporto fisico manca di qualcosa. Come per il pensiiero, non possiamo veramente separare i media dalle loro corrispondenze fisiche. La nostra relazione con la musica, ad esempio, è multi-sensoriale, non solamente uditiva, ma anche tattile e visiva. A parte ciò, la musica è un’esperienza sociale. E non va dimenticato che possiamo sviluppare un attaccamento anche per il supporto fisico della musica (nella forma di LP o, in misura minore, di CD), dei libri e delle riviste.

Recentemente, il New York Times ha pubblicato l’articolo “Serendipity, Lost in the Digital Deluge”  (La serendipità persa nell’inondazione digitale), scrivendo “c’è troppa informazione. Possiamo avere migliaia di persone che ogni giorno ci mandano dei suggerimenti, alcuni utili, altri no. Dobbiamo leggerli, selezionarli, smistarli e agire su di essi”.

Nell’articolo “Internet ci porta all’apertura mentale?” ho scritto di come la varietà di fonti disponibili nella Rete porta traffico solamente ad un insieme molto ristretto di siti web, invece di espandere la portata della nostra ricerca. Lo stesso fenomeno si applica alle citazioni verso gli articoli scientifici e alla musica, dove solamente lo 0,4 percento dei brani rappresenta l’80 percento dei download. I ricercatori hanno scoperto che quando le persone sono più connesse tra di loro in Rete, tendono a concentrarsi su un numero di fonti ancora più ristretto.

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Leggi tutto “Maybe I would Not Appreciate Pink Floyd’s Music if it was Digital”

Those Tiny Chips With Huge Smelly Footprints

Quei piccoli chip con quelle enormi impronte puzzolenti

Low Tech Magazine presented the article titled “The monster footprint of digital technology” in which they show how the power consumption of our high-tech machines and devices is hugely underestimated:

When we talk about energy consumption, all attention goes to the electricity use of a device or a machine while in operation. A 30 watt laptop is considered more energy efficient than a 300 watt refrigerator. This may sound logical, but this kind of comparison does not make much sense if you don’t also consider the energy that was required to manufacture the devices you compare. This is especially true for high-tech products, which are produced by means of extremely material- and energy-intensive manufacturing processes… The energy consumption of electronic devices is skyrocketing…There are multiple reasons for the growing energy consumption of electronic equipment; more and more people can buy gadgets, more and more gadgets appear, and existing gadgets use more and more energy (in spite of more energy efficient technology – the energy efficiency paradox described here before).

However, most of the energy involved in electronics is not much about their use. Larger amounts of energy are being used for the production of the technology, the embodied energy.

The energy used to produce electronic gadgets is considerably higher than the energy used during their operation. For most of the 20th century, this was different; manufacturing methods were not so energy-intensive…Advanced digital technology has turned this relationship upside down. A handful of microchips can have as much embodied energy as a car… The embodied energy of the memory chip (of a computer) alone already exceeds the energy consumption of the laptop during its life expectancy of 3 years.

The trend in the manufacture of electronics is going toward more energy-intensive processes and heavier costs in terms of raw materials and resources. Did the fast development in computer processing speed and memory, coupled with the huge amount of energy needed for manufacturing them make them faster and more productive? Every Windows user knows that after one or two years of use the operating system becomes cluttered and slows down considerably.

Defragmenting the hard disk, cleaning the registry and uninstalling applications have little effect. The cooling fan runs often, often the hard disk works like hell with no apparent reason, operations get slower and slower. This can be blamed on the poorly-engineered Windows operating system, but even alternatives like Apple or Linux, though better, don’t come any closer to match the development in hardware at the software level

Low Tech Magazine ha presentato l’articolo dal titolo “The monster footprint of digital technology” (La mostruosa impronta ecologica delle tecnologie digitali). in cui mostrano come il consumo di energia dei nostri strumenti ad alta tecnologia è fortemente sottostimato:

Quando parliamo di consumo di energia, tutta l’attenzione va verso l’utilizzo di elettricità di un dispositivo o di una macchina mentre sta operando. Un laptop da 30 watt viene considerato energeticamente meno dispendioso di un frigorifero da 300 watt. Questo può apparire logico, ma questo tipo di confronto non ha molto senso se non si considera anche l’energia che è stata utilizzata per costruire i due oggetti che vengono confrontati. Questo è particolarmente vero per i prodotti ad alta tecnologia, che vengono prodotti da processi che sono altamente intensivi per quanto riguarda l’utilizzo di energia e di materie prime… Il consumo di energia degli strumenti elettronici sale alle stelle… Ci sono diverse ragioni alla base della crescita dei consumi energetici degli strumenti elettronici; sempre più persone possono comprare i gadget, sempre più gadget entrano sul mercato, e quelli esistenti usano sempre più energia (nonostante le tecnologie siano sempre più efficienti in termini di energia utilizzata – il paradosso dell’efficienza energetica qui descritto).

Nonostante ciò, la maggior parte dell’energia richiesta dall’elettronica non riguarda più di un tanto il suo utilizzo. Quantità maggiori di energia vengono usate per la produzione della tecnologia, l’energia incorporata.

L’energia utilizzata per produrre i gadget elettronici è molto maggiore di quella utilizzata durante le loro operazioni. Per la maggior parte del ventesimo secolo le cose erano diverse; i metodi di produzione non erano così energeticamente intensivi… La tecnologia digitale avanzata ha ribaltato i termini di questa relazione. Una manciata di microchip può avere un’energia incorporata pari a quella di un’automobile… L’energia incorporata del solo chip di memoria di un computer supera l’energia utilizzata dal laptop durante tutta la sua aspettativa di vita di 3 anni.

La tendenza produttiva nell’elettronica va verso processi a uso intensivo di energia e a costi più alti in termini di materie prime e di risorse utilizzate. Ha lo sviluppo rapido della velocità di elaborazione e della quantità di memoria, accoppiate con l’enorme quantità di energie necessaria per la produzione, portato ad una maggiore velocità e produttività degli stessi? Qualsiasi utente Windows sa che dopo uno o due anni di utilizzo, il sistema operativo diventa “ingolfato” e rallenta notevolmente.

Deframmentare il disco rigido, ripulire il registro di sistema e disinstallare le applicazioni hanno poco effetto. La ventola di raffreddmento si attiva più frequentemente, spesso il disco rigido lavora come un pazzo senza una ragione evidente e le operazioni diventano sempre più lente. Ce la possiamo prendere con il sistema operativo Windows, progettato in modo non efficiente, ma anche le alternative come Apple o Linux, anche se migliori, non corrispondono a livello di software agli sviluppi dell’hardware. Leggi tuttoThose Tiny Chips With Huge Smelly Footprints

Quei piccoli chip con quelle enormi impronte puzzolenti

Reading as Contemplation versus Reading as Compulsion

Lettura come contemplazione e lettura come compulsione

In the middle of Twitter-mania and the push toward writing and reading fast, updated and short-lived information, it is good to be reminded about different ways of reading by two spiritual teachers from two very different paths. One is from Carlo Maria Martini.

The Christian tradition developed lectio divina (divine reading), a method in four steps: “lectio, meditatio, oratio, contemplatio” (reading, reflecting, oration, meditation). Those successions are the products of theological and anthropological reflections on the way the believer approaches God’s word, in order to assimilate them and transform them in real life, in action. (Carlo Maria Martini, Lectio Divina e Pastorale: A Cura di Salvatore A. Panimolle, Ascolto della Parola e Preghiera, La “Lectio Divina”, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1987, p. 217).

The second is from the Indian mystic Osho.

To read is to know a certain art. It is to get into deep sympathy. It is to get into a sort of participation. It is a great experiment in meditation. But if you read the Gita the same way as you read novels you will miss it. It has layers and layers of depth. Hence, path – every day once has to repeat. It is not a repetition; if you know how to repeat it, it is not a repetition. If you don’t know, then it is a repetition.
Just try it for three months. Read the same book – you can choose any small book – every day. And don’t bring your yesterday to read it: just again fresh as the sun rises in the morning – again fresh as flowers come this morning, again fresh. Just open the Gita again, excited, thrilled. Again read it, again sing it, and see. It reveals a new meaning to you.
It has nothing to do with yesterday and all the yesterdays when you were reading it. It gives you a certain significance today, this moment, but if you bring your yesterdays with you, then you will not be able to read the new meaning. Your mind is always full of meaning. You think you already know. You think you have been reading this book again and again – so what is the point? Then you can go on reading it like a mechanical thing and you can go on thinking a thousand and one other thoughts. Then it is futile. Then it is just boring. Then you will not be rejuvenated by it. You will become dull. (Osho, The Search: Talks on the Ten Bulls of Zen, Rebel Publishing House, 1977, p. 122).

I wonder if the compulsive search for the latest news/messages and for an unending flow of information could be a reflection on the mental level of the everlasting freshness experienced by an enlightened soul. Such a condition re-creates itself anew at every moment, keeping the mind free from the burdens of the past.

Nel bel mezzo della Twitter-mania e della spinta verso la scrittura e la lettura di informazioni veloci, aggiornate e di breve vita, è bene che due maestri spirituali, provenienti da percorsi ben diversi, ci ricordino che vi sono altri modi per leggere. Il primo è di Carlo Maria Martini.

La tradizione cristiana ha sviluppato per la lectio divina un metodo in quattro momenti: “lectio, meditatio, oratio, contemplatio”. Queste successioni sono frutto di una riflessione teologica e antropologica sul modo in cui il credente accosta la parola di Dio, per assimilarla e trasformarla in vita vissuta, in azione. (Carlo Maria Martini, Lectio Divina e Pastorale: A Cura di Salvatore A. Panimolle, Ascolto della Parola e Preghiera, La “Lectio Divina”, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1987, p. 217).

La seconda viene dal mistico indiano Osho:

Leggere implica conoscere una determinata arte; significa vibrare in profonda simpatia; significa in qualche misura parteciparvi; è un grande esperimento di meditazione. Tuttavia se leggete la Gita allo stesso modo in cui leggete i romanzi, non riuscirete a coglierla. Essa è composta di vari strati, ciascuno ad un proprio livello di profondità, quindi ecco il percorso: ogni giorno occorre ripeterlo. Non si tratta di una ripetizione, se sapete come la si deve fare. Se non lo sapete, allora si tratterà di una ripetizione. Provateci per tre mesi. Leggete il medesimo libro, qualunque libretto riusciate a trovare, e leggetelo ogni giorno. Non caricatevi sulle spalle i vostri ieri mentre lo leggete: siate sempre nuovi come il sole che ogni mattina sorge di nuovo, come fiori che ogni mattina sbocciano sempre freschi. Aprite di nuovo la Gita, eccitati, elettrizzati. Leggetela di nuovo, cantatela di nuovo e state a vedere… vi rivelerà un nuovo significato. Tutto ciò non ha niente a che fare con quanto avete provato ieri e in tutti i giorni passati in cui l’avete letta. Proprio oggi vi comunica un preciso significato, in questo momento; tuttavia, se portate con voi tutti i vostri ieri, allora non sarete in grado di cogliere, nel corso della lettura, il nuovo significato, perché la vostra mente sarà già colma di significati. Ritenete di sapere già. Pensate di avere già letto e riletto questo libro: che senso ha continuare? In questo caso potrete continuare a leggerlo come se si trattasse di una cosa meccanica, continuando peraltro a pensare a migliaia di altre cose. Allora sarà inutile, senz’altro noioso; allora non ne sarete ringiovaniti e ne rimarrete intontiti. (Osho, La ricerca. Conversazioni sui dieci tori Zen, La Salamandra, Milano, 1984, p. 94).

Mi chiedo se la ricerca compulsiva delle ultime notizie/messaggi e per un infinito flusso di informazioni possa essere un riflesso sul piano mentale dell’eterna freschezza di cui fa esperienza un essere illuminato. Una tale condizione ricrea se stessa nuova ad ogni momento, lasciando la mente libera dai pesi del passato.

Indranet joins the July 14 initiative to defend the freedom of information

Logo bavaglio Network

I joined the July 14 initiative started, among others, by Alessandro Gilioli, Enzo di Frenna and Guido Scorza against Alfano’s proposed law which would strongly limit the freedom of the press and the Net. Blogs which join will show only the protest’s logo on their home pages on July 14.

Even though I was enthusiastic about the Net having contributed by publishing the first books on the Internet in Italy, I think the network is no longer an instrument of social and consciousness transformation as much as could have been envisaged around 10 years ago, for many reasons, among them the infinite distractions and the race toward novelties.

Also, I do not believe that freedom is in prevalence in the freedom of words. The silence of the mind goes more in depth and creates a wider freedom. But, as Almaas writes: “There is nothing you can ultimately say, but you have to exhaust all the words.”

Perhaps the secret goal of the Net is to let words rotate as fast as to create – like a windmill – white color as the sum of every color. Words can exhaust themselves only after being expressed in full totality and freedom, not due to a law which would limit their scope and which would bring us not beyond words, but at a previous level.

I wish as well, that more days of silence will be realized, even without the opportunity of a righteous protest.

Logo bavaglio Network

Aderisco all’iniziativa del 14 luglio 2009 lanciata, tra gli altri, da Alessandro Gilioli, Enzo di Frenna e Guido Scorza contro il DDL Alfano che mette il bavaglio all’informazione e alla Rete. I blog che aderiscono presenteranno in home page solamente il logo dell’iniziativa.

Pur essendo stato un entusiasta della Rete in tempi non sospetti e avendo contribuito a questa pubblicando i primi libri su Internet in Italia, ritengo che la Rete non sia più uno strumento di trasformazione sociale e delle coscienze come lo poteva essere fino a una decina di anni addietro. Per tanti motivi, non ultimo quello delle infinite distrazioni e della rincorsa verso le novità.

Anche, non ritengo che la libertà sia in prevalenza la libertà delle parole. Il silenzio della mente va più in profondità e crea una libertà più ampia. Ma, come scrive Almaas, “non c’è niente che si possa affermare in modo definitivo, ma  è necessario esaurire tutte le parole”.

Forse lo scopo segreto della Rete è quello di far ruotare le parole talmente velocemente da creare, come una girandola, il bianco come somma di tutti i colori. Le parole si potranno esaurire solo dopo che si saranno espresse in piena totalità e libertà, non certo per una legge che ne vuole limitare la portata e che ci porterebbe non oltre la mente, ma ad un livello precedente.

Inoltre, mi auguro che le giornate di silenzio si attuino anche senza l’occasione di una, seppur più che legittima, protesta.

Belonging 2.0

Appartenenza 2.0

Several news sites recently reported that British Airways is asking its staff to work for free up to a month in order to cut the company’s costs. Such news would have been unbelievable just a few years ago. Here in Europe, having a solid trade union tradition, such a proposal would have been mocked as something suitable at most for Japanese people who are willing to sacrifice for their company.

But this is the brave  new world of 2.0 where we are becoming more and more eager to participate and contribute. We are not only viewers anymore, but actors in the society of the spectacle. On the Net, we feed social networks with our “user-generated content” and help companies to advertise their products. “More than four in five bloggers post product or brand reviews, and blog about brands they love or hate,” according to the State of the Blogosphere 2008.

To feel a sense of belonging and to contribute to our community is an authentic human need which gets exploited by companies. It is easy to obtain: first, real communities have been impoverished by a massified urban living – family members themselves have been isolated by TV, video games and other media, and individuals have been relegated to an indoor life connecting with each other mainly through the Internet.

In such a condition, our sense of belonging can easily slip to social networks, companies and brands which don’t actually care about us, apart from being instruments of promotion and sites-filling.

Recentemente diversi siti di informazione hanno riportato che la British Airways ha chiesto ai suoi dipendenti di lavorare a gratis fino ad un mese per poter tagliare i costi aziendali. Una tale notizia sarebbe stata inconcepibile sono fino a pochi anni addietro. In Europa, avendo una forte tradizione sindacale, una tale proprota sarebbe stata ridicolizzata come qualcosa al più adatta per i Giapponesi che sono disposti a sacrificarsi per la loro azienda.

Ma questo è il mondo nuovo 2.0 dove diventiamo sempre più disposti a partecipare ed a contribuire. Non siamo slamente spettatori, ma attori nella soceità dello spettacolo. In Rete alimentiamo i network sociali con i nostri contenuti ed aiutiamo le aziende a promuovere i loro prodotti. Il rapporto sullo Stato della Blogosfera 2008 afferma che “Più di quattro su cinque blogger scrivono di prodotti o recensiscono marchi, e scrivono circa i marchi che amano o odiano”.

Sentire un senso di appartenenza e contribuire alla propria comunità è un autentico bisogno umano che viene sfruttato dalle aziende. E’ semplice ottenerlo: come prima cosa, le comunità reali sono state impoverite da una vita urbana massificata – i membri delle femiglie stesse sono stati isolati dalla TV, dai videogame e da altri media, le singole persone sono state relegate ad una vita al chiuso, connesse le une alle altre prevalentemente tramite Internet.

In una tale condizione, il nostro senso di appartenenza può scivolare facilmente verso i network sociali, verso le aziende e i marchi a cui non importa di noi stessi se non come strumenti di promozione e di riempimento dei siti.

Does the Internet Really Broaden Minds?

Internet ci porta davvero all’apertura mentale?

Ever since the Internet came into our lives it has been regarded as the medium supposed to stimulate a positive meeting between cultures and to ease the spread of information neglected by the traditional media. While it is true that everybody can set up a blog or a website with a small technical and financial investment and share their writings, music or videos for the whole world, it seems that the big media are even bigger on the Net and that the understanding between cultures didn’t improve much even 15 years after the mass diffusion of the Internet.

If we look at the academic level, the Economist published an article titled “Great minds think (too much) alike” where research by James Evans, a sociologist at the University of Chicago, is introduced, whose work has been published in Science. The conclusion of his work says that, “as more journals become available online, fewer articles are being cited in the reference lists of the research papers published within them. Moreover, those articles that do get a mention tend to have been recently published themselves. Far from growing longer, the long tail is being docked.” The long tail is a term coined by Chris Anderson in 2004 to define the niche markets which the Web can approach, where unique products take an important commercial value.

Evans discovered instead that the great variety of papers available on the Net, far from widening the range of quoted sources, actually gave privilege to the ones already well known and even more to the most recent ones, probably the easiest to find searching in Google.

On the commercial level, New Scientist published the article “Online shopping and the Harry Potter effect” writing that “big sellers have never been bigger… Andrew Bud from the cellphone software company mBlox have analysed a year’s worth of downloads from a well-known internet music store. They found that of the 13 million tracks available, 52,000 – just 0.4 per cent – accounted for 80 per cent of downloads”.

New Scientist explains the phenomenon as, “easy digital replication and efficient communication through cellphones, email and social networking sites encourage fast-moving, fast-changing fads. The result is a homogenisation of tastes that boosts the chances of popular things becoming blockbusters, making the already successful even more successful.”

This has been confirmed experimentally by Duncan Watts, a sociologist at Columbia University, New York.

Together with his colleagues Matthew Salganik and Peter Dodds, he tested the effect of communication and peer approval on the musical tastes of 14,000 teenage volunteers recruited online (Science, vol. 311, p. 854;). A set of 48 songs was made available to all the volunteers, who could download whichever songs they wanted. The researchers split the volunteers into eight groups; in some, group members could see what their peers were downloading, but in others they had no such knowledge. In the socially connected groups, the winner took all: popular songs became more popular, unpopular songs more unpopular. This effect was much less pronounced in the socially isolated groups.

Watts thinks that information overload makes us more dependent on other people’s opinions to find out what we like. Then New Scientist asks, “why, when we have so much information at our fingertips, are we so concerned with what our peers like? Don’t we trust our own judgement?”

In another article, a psychologist finds Wikipedians grumpy and close-minded. In a psychological test, Wikipedians, as expected, “were more comfortable online than in the real world” but they, surprisingly, scored low even on agreeableness and openness.

During an Italian conference dedicated to music on the Net, one boy asked the speaker, “We can download the complete discography of any artist, but the problem is: What do we like?” An interesting question, which gives the real point of the matter.

Choices are connected with our personality; choices are bridges between our inner view and an external event. We can make the right choices for ourselves only when we can listen to ourselves deep enough to access the essence of our personality and join it to the outer life. But in order to do that we need both a solid personality which we are aware of and, some quiet and empty time to look into ourselves instead of following just external inputs. Both states are quite hard to access in online life.

We tend to believe that information can construct our personality and give us an individuality. We identify ourselves mostly with what we know, with our thoughts and beliefs, in another world with what fills our mind. But those aspects are as fragile and unreal as the financial derivatives market. The ideas and beliefs which fill our minds are essentially the products of our familiar and cultural conditionings, which give the ego the illusion of being “somebody” with its unique peculiarities.

Information, detached from experience, detached from a felt inner view and detached from an ethical background, mostly reinforces our conditionings instead of opening our minds to new areas. Neil Postman, in Technopoly: The Surrender of Culture to Technology (New York: Vintage Books, 1993, p. 63), wrote:

Information is dangerous when it has no place to go, when there is no theory to which it applies, no pattern in which it fits, when there is no higher purpose that it serves.

The mind’s main job and hobby is to separate, to discriminate, and to judge. It gives us a powerful way to read and act on reality which gave science and technology the strongest roles in our culture. Unless mind is subordinated to a broader (we could say spiritual) awareness, is non-inclusive by nature. In this view it is not surprising to know that online, we tend to stay in our territory with what is already known and accepted by our minds. Our social connections online can surely broaden minds too but mostly, as happens with other media, they promote uniformization.

Actually, we experience the paradox of both uniformization and the explosion of differences; Lee Siegel expressed this paradox as one “must sound more like everyone else than anyone else is able to sound like everyone else” (Against the Machine, New York: Spiegel & Grau, 2008, p. 73).

The source of this apparently contradictory phenomenon is in the ego itself, which does need to be recognized and accepted by people but at the same time feel different from anyone else in order to prove its specialness. Commercially, we are presented with millions of choices to let us think we are unique but then people tend to choose what is known or anyway what is known by somebody we want to be connected with and recognized by, much as teenagers are dependent on the peer group’s opinions.

When we are presented with millions of commercial options and we choose one we delude ourselves in thinking we are recognizing ourselves and building a part of our individuality. The market, as the Situationists had already seen in the 1950s, first takes away our real needs of connection and authenticity, then illudes us in giving what we need, but in a pale reflection of the real, making us always thirsty for a ‘real’ which will never come.

The variety expressed on the Web is well developed and important and will expand even more, but it seems that the force toward variety turned back into concentration of sources of information, as Nicholar Carr said in an interview for The Sun magazine.

It was once believed that the Web was essentially centrifugal: that it pushed people away from big, central sources of information to millions of small, independent sources scattered throughout the network. But it turns out that centripetal forces – forces that draw us back to the big power centers – are also strong on the Web. Big sites have big advantages, and they seem to get stronger over time. The Net’s Wild West days are coming to an end. The trend now is more toward the consolidation of traffic and power than toward their diffusion.

Our choices about information can come from our depth if we allow ourselves to sense our very depth. The more we swallow information the less we are able to make real choices. We can’t make real choices because we don’t listen to ourselves; and we don’t listen to ourselves because the capacity of our inner attentional muscles is never exercised and it becomes weak by attending only external inputs mostly of short bits of information with no broad view. When we can’t approach our inner self or when the very habit of looking inside becomes weakened, we can only consign our choices to the mass or perhaps just to the faster website. In this way we identity more with the contents of information poured into our minds and less with our essential qualities.

One of the mantras of the Internet is that there aren’t barriers of social status, religion, country, ideology. This is true of our possibility to access any kind of information on the Net, but the more we identity ourselves with our mind’s contents, the more we erect defenses against extraneous information which would shake our mind’s structures and therefore our very identity. The real broadening of the mind can happen when we don’t identify with our mind’s beliefs and ideas, but with our felt inner qualities which are being supported by the observation of our mind’s processes and by the acceptance of the emptiness of our mind.

Da quando Internet è entrato nelle nostre vite è stato ritenuto come il medium che avrebbe dovuto stimolare un incontro positivo tra le culture ed a facilitare la diffusione delle informazioni che venivano trascurate dai media tradizionali. Pur essendo vero che chiunque può aprire un blog o un sito web con un minimo investimento tecnico e finanziario e condividere così i propri scritti, musica o video the il mondo intero, sembra che i grandi media siano ancora più grandi in Rete e che la comprensione tra le culture non sia molto migliorata anche 15 anni dopo la diffusione di massa di Internet.

Se osserviamo il mondo accademico, l’Economist ha pubblicato un articolo intitolato “Le grandi menti pensano (troppo) simile”  dove viene presentata la ricerca di James Evans, un sociologo dell’università di Chicago, il cui lavoro è stato pubblicato su Science. Le conclusioni del suo lavoro sono che “all’aumentare delle riviste disponibili online, un numero minore di articoli vengono menzionati nell’elenco degli scritti di ricerca. Inoltre, gli articoli che vengono maggiormente menzionati tendono ad essere quelli pubblicati più di recente. Invece di crescere in lunghezza, la coda lunda viene tagliata”. La coda lunga è un termine coniato da Chris Anderson nel 2004 per definire i mercati di nicchia che possono essere approcciato dal Web, dove i prodotti unici assumono un’importante valore commerciale.

Evans ha scoperto al contrario che la grande varietà di articoli disponibili in Rete, lungi dall’espandere la portata delle fonti citate, in realtà privilegia quelle che sono già note e in maggior modo le più recenti, probabilmente le più semplici da trovate con Google.

A livello commerciale, New Scientist ha pubblicato l’articolo “Lo shopping online e l’effetto Harry Potter“, scrivendo che “i grandi venditori non sono mai stati così grandi… Andrew Bud dell’azienda di software per cellulari mBlox ha analizzato un anno di download da un famoso negozio di musica su Internet. Ha trovato che, dei 13 miioni di brani disponibili, 52.000, solo lo 0,4 percento dei titoli, produceva l’80 percento dei download.

New Scientist spiega il fenomeno così: “la facilità della copia digitale e la comunicazione efficiente tramite i cellulari, le email e i social network incoraggia le mode che si muovono e cambiano velocemente. Il risultato è una omogeneizzazione dei gusti che accrescono le probabilità che qualcosa di popolare diventi un bestseller, portando maggiore successo a ciò che lo ha già”.

Questo è stato confermato sperimentalmente da Duncan Watts, un sociologo alla alla Columbia University di New York.

Insieme con i suoi colleghi Matthew Salganik e Peter Dodd, ha testato gli effetti della comunicazione e l’approvazione dei coetanei sui gusti musicali di 14.000 adolescenti reclutati online come volontari  (Science, vol. 311, p. 854). Ai volontari è stato messo a disposizione un set di 48 canzoni. I volontari avrebbero potuto scaricare qualsiasi canzone. I ricercatori hanno diviso i volontari in otto gruppi; in alcuni, i membri dei gruppi potevano vedere ciò che stavano scaricando i loro coetanei, ma in altri non vi era tale informazione. Nei gruppi socialmente connessi, il vincitore prese tutto: le canzoni popolari divennero ancora più popolari, quelle non popolari divennero ancora più trascurate. Questo effetto era meno evidente nei gruppi socialmente isolati.

Watts ritiene che il sovraccarico di informazioni ci rende più dipendenti rispetto alle opinioni altrui per capire cosa ci piace. Quindi New Scientist si chiede: “perché, quando abbiamo così tante informazioni a disposizione, siamo così preoccupati rispetto ai gusti degli altri? Non ci fidiamo dei nostri giudizi?”

In un altro articolo, uno psicologo ha scoperto che i Wikipediani sono scontrosi e chiusi di mente. In un test psicologico, i Wikipediani, come ci si sarebbe aspettato, “erano più a loro agio online che nel mondo reale” ma anche, sorprendentemente, hanno avuto un basso punteggio rispetto alla cortesia e all’apertura.

In Italia, durante una conferenza dedicata alla musica in Rete, on ragazzo ha domandato allo speaker: “Possiamo scaricare la discografia completa di qualsiasi artista, ma il problema è: Cosa ci piace?”. Una domanda interessante che dà il vero senso della questione.

Le scelte sono connesse con la nostra personalità, le scelte sono ponti tra la visione interiore e un evento esterno. Possiamo effettuare le scelte opportune per noi quando possiamo ascoltarci abbastanza in profondità in modo da accedere all’essenza della nostra personalità e collegarla alla vita esterna. Ma per poter fare questo necessitiamo sia di una solida personalità di cui siamo consapevoli e di un lasso di tempo tranquillo e vuoto per guardare al nostro interno invece di rincorrere solamente input esterni. Entrambi gli stati sono difficili da ottenere nella vita online.

Tendiamo a credere che le informazioni possano costruire la nostra personalità e darci una individualità. Ci identifichiamo primariamente con ciò che conosciamo, con i nostri pensieri e ciò a cui crediamo, in altre parole con ciò che ci riempie la mente. Ma tali aspetti sono fregili e irreali come i mercati finanziari dei derivati. Le idee e le credenze che ci riempiono la mente sono essenzialmente i prodotti dei nostri condizionamenti familiari e culturali, che danno all’ego l’illusione di essere “qualcuno” con le sue uniche peculiarità.

L’informazione, staccata dall’esperienza, separata da una visione interiore sentita e scollegata da una base etica, più che altro rinforza i nostri condizionamenti invece di aprirci la mente verso nuove aree. Neil Postman, in Technopoly: The Surrender of Culture to Technology (New York: Vintage Books, 1993, p. 63), scrisse:

L’informazione è pericolosa quando non ha un luogo dove andare, quando non c’è una teoria a cui si applica, nessun modello a cui si adatta, quando non serve uno scopo più elevato.

Il lavoro e l’hobby principale della mente è quello di separare, di discriminare, di giudicare. Ci fornisce un modo potente per leggere e agire sulla realtà, che ha dato alla scienza e alla tecnologia i ruoli predominanti nella nostra cultura. A meno che la mente non è subordinata ad una consapevolezza più estesa, essa è non-inclusiva per natura. Secondo questo punto di vista non ci si sorprende che online tendiamo a rimanere nel nostro territorio con ciò che è già conosciuto ed accettato dalla nostra mente. Le nostre connessioni sociali online possono senza dubbio ampliare le menti, ma, soprattutto, come già avviene con altri media, promuovono l’uniformità.

In reatà vediamo il paradosso dell’uniformità insieme all’esplosione delle differenze; Lee Siegel ha espresso questo paradosso in modo tale che una persona “deve sembrare di più come chiunque altro che qualsiasi altra persona sembri come chiunque altro”. (Against the Machine, New York: Spiegel & Grau, 2008, p. 73).

La fonte di questa apparente contraddizione è nell’ego stesso, che necessita di riconoscimento e di essere accettato dal prossimo, ma allo stesso tempo di sentirsi diverso da chiunque altro per poter dimostrare il suo essere speciale. Commercialmente ci vengono proposte milioni di scelte per farci credere di essere unici ma di fatto le persone tendono a scegliere ciò che è già noto  oppure ciò che è noto a qualcuno a cui vogliamo essere connessi ed apprezzati, analogamente agli adolescenti che dipendono dalle opinioni dei coetanei.

Quando ci propongono milioni di opzioni commerciali e ne scegliamo uno, ci illudiamo nel credere che stiamo riconoscendo noi stessi e costruendo una parte della nostra individualità. Il mercato, come avevano già osservato i Situazionisti negli anni 50, come prima cosa ci toglie i nostri bisogni reali di connessione ed autenticità, poi ci illude nel darci ciò che necessitiamo, ma in un pallido riflesso del reale, lasciandosi sempre assetati per un “reale” che non giunge mai.

La varietà espressa dal Web è ampia e importante e si espenderà ulteriormente, ma sembra che le forze verso la varietà si sono rigirate verso la concentrazione delle fonti di informazione, come ha affermato Nicholas Carr in un’intervista per il The Sun magazine.

Una volta si credeva che il Web era essezialmente centrifugo: che spingeva le persone lontano dalle grandi fonti centrali di informazione verso limioni di fonti piccole e indipendenti frammentate nella rete. Ma risulta chele forze centrifuche – forze che ci riportano indietro verso i grossi centri di potere – sono altrettanto forti sul Web. I grandi diti hanno grandi vantaggi e sembra che diventino più forti con il passare del tempo. I tempi del Vecchio West in Rete stanno volgendo alla fine. La tendenza ora è più verso la consolidazione del traffico e del potere che verso la loro diffusione.

Le nostre scelte riguardo le informazioni possono arrivare dal nostro profondo se ci consentiamo di sentire la nostra profondità. Più ingoiamo informazioni meno siamo in grado di effettuare scelte autentiche. Non possiamo scegliere in modo autentico perché non ci ascoltiamo e non ci ascoltiamo perché non esercitiamo mai i nostri muscoli dell’attenzione interiore e di conscguenza si indeboliscono prestando attenzione solo ad input esterni e perlopiù brevi frammenti informativi senza un’ampia visione. Quando non possiamo contattare il nostro sé o quando l’abitudine di grandarsi dentro si indebolisce, possiamo solamente rimettere le nostre scelte alla massa o magari al sito web più veloce. Così facendo ci identifichiamo maggiormente con i contenuti delle informazioni che vengono versate nella nostra mente e meno con le nostre qualità essenziali.

Uno dei mantra di Internet è che non vi sono barriere di status sociale, di religione, di nazione  o ideologiche. Questo è vero per quanto riguarda la possibilità di accedere qualsiasi tipo di informazione in Rete, ma più ci identifichiamo con i contenuti della mente, più edifichiamo difese contro le informazioni estranee che scuoterebbero le nostre strutture mentali e di conseguenza la nostra identità. La vera apertura mentale può avvenire quando non ci identifichiamo con le idee e le  credenze della mente, ma con le nostre qualità interiori sentite che vengono supportate dall’osservazione dei processi mentali e dall’accettazione del vuoto mentale.

After a Few Months on Facebook

Dopo qualche mese su Facebook

After a series of resistances to Facebook I experimented with the social network in the last few months. The first resistance was about presenting a “self” of mine, the same for all people in my friends’ list. This created some perplexity for me. I like the variety of human beings and have always mixed with people of the most variety: adventurers, hippies, artists, travelers, therapists, entrepreneurs, scholars, rich, poor and creative mixes of those natures. My self, being composed of a mix of different personalities, tends to show different facets of my nature where these can find correspondence. Inevitably, this creates more intimate and personalized relationships but at the same time they are limited by a subset of our personality.

With Facebook and the public profile which widely embraces our personality, I was afraid of not being recognized “for what I am” by some individuals. It reminded me of One, No One, and One Hundred Thousand, the latest novel and a masterpiece of Luigi Pirandello. Basically we are “One,” but for the majority of people we are not “No One,” while in front of the multitude of people who know us, we are “One Hundred Thousand.” We are a different person in the eyes of each person. Without going to the spiritual level where we can say that actually all of us are “nobody” and “everything” at the same time, remaining on the levels of the personality construction and object relationships, Facebook is an interesting experiment.

On the Net we are often anonymous in many spheres: in our Web surfing, in social networks and in forums, we mostly use identities which do not identify us precisely. Facebook is an attempt to reunify the various personalities and to give a center of consciousness to the fragmentation of the online personality. It is an attempt to overcome – even though limited to the digital area – the various object relationships. Facebook can represent an evolution of the adolescent search of one’s own personality, a stage when there are attempts to give ourselves an identity through experimenting with life and people and often hiding behind anonymity.

So, here I am with my “real me” on Facebook, the same in front of everybody, unifying the pieces of my history and therefore the pieces of my psyche. What will it be like, this public “me”? As a lowest common multiple where my relationships and human qualities can be creatively expanded through sharing with friends, or will it be as a highest common factor where only the common qualites will be kept, the ones which most people can accept? It seemed to me sometimes the former at other times the latter.

When in the offline community human relationships are evermore distant and formalized, where almost the whole territory has been turned into a cement jungle, where non-commercial places for meeting are becoming rare, where the time for real meetings itself becomes absorbed more and more by technological gadgets, Facebook has arrived to the rescue for helping us to find again the sense of belonging and to keep in touch in contact with people.

The first thing which struck me was that Facebook proposed to me to update my status writing in the third person: “Ivo…,” which I could have completed with “has gone to the beach,” “has had lunch with friends,” “is writing an article,” etc. We write this way in the perspective of others, to be seen and read. The third person has a double function. From the one hand to present oneself in the third person supports the inner observation. The very fact of presenting oneself from the point of view of others helps the awareness of ourselves. On the other hand, speaking in the third person can feed the ego even further, maybe for the very fact that in speaking of ourselves we are feeding an attention which is not that of inner observation, but that of the ravenous ego to be seen and recognized.

After a couple of months the initial proposal became, “What’s on your mind?” Facebook is giving more importance to the “Twitter-like” functions, stimulating the flow of daily messages almost in real time. The way of meditation is to let the thoughts pass by, not becoming attached to them. After years of working on myself, one of the few things I have learnt is that the mind excretes thoughts continuously, that the vast majority of them are not interesting and most of them do not even belong to us. Most thoughts present themselves in the form of conditionings and repeating others’ words and thoughts, with few variations on the theme. Now that I start to attach less to my thoughts, letting them flow with a certain indifference, here comes Facebook which elevates them to the “news of the day” ranking. Well…

Anyway, I played around a bit with Facebook, wrote some notes, gave links and uploaded photos of my travels. Once I was on a tropical island, taking pictures and thinking of how I would have presented them on Facebook. Instead of living the situation totally, I was thinking of how to picture it and how to present it inside a media, moving away from the direct experience on many levels. Even the mind which interferes is a part of the totality of experience and I accept it with great pleasure, but when it exaggerates, I put it aside in a corner.

I remember when I was a child and when something interesting was happening, sometimes the adults would tell me, “Oh…think of when you’ll tell this to your friends (or at home).” It used to make me mad because it got me out of the flow, whether I was playing or watching a show. For many years I did not take pictures of my trips and in some way if I have started doing it since the last few years, it is also due to the pressure of sharing them through the Internet.

Every time I connect to Facebook I browse the flow of my friends’ updates. There are those who write several notes in a day, those who seldom write, there are funny or serious appeals, a female friend of mine writes, “Something is dying inside….”If she writes it in a public way it is a desire for sharing, but it is strange to see this message running with dozens of other signals mostly ordinary and often banal. I know something about this friend’s life; it wouldn’t be appropriate to reply in public for asking further details but at the same time I would not want to use Facebook as a platform email for sending a personal message. In this manner we enter Facebook for continuing a talk which can happen much more easily through ordinary email. I choose not to send any comment or message in Facebook, reserving myself for communication with her in other ways (by Internet, through IM or email because we live in different nations). I also ask myself if I am avoiding deeper contact, being in my turn taken over by the avalanche of superficiality.

Using Facebook I tend to decrease individual contact. More than communicating I found that I was broadcasting, transmitting to an audience. Almost every day the audience increases, the number of friends expands. The effect is seductive and gratifying for the ego, but it is a different thing to communicate to a public rather than to a single person. With each of them there is a unique story and a unique relationship. Of course, it is possible to send personalized messages by Facebook too but for this purpose a mailer program is better, while the structure of Facebook gives more emphasis to broadcasting. As a mailer I use Eudora, an old software, but still functional and “ecological,” which works even with a slow Internet connection or through a mobile phone connection. Differently, it is almost impossible to open Facebook pages with a connection which is not ADSL to send just a private message.

I have noticed that after about 50 “friends” the flow of messages becomes such that it leads to loss of sense and value. I tend to scroll the messages with the mouse as if they were newspaper items. As when in some countries everybody is hooting on the road, the meaning of the signal gets lost, hearing gets anesthetized and it becomes only a background. McLuhan had noticed how technologies and the media become as much an extension as an amputation of the body/mind’s faculties.

The nature of the mind is such that after some time it erases any interest; through the repetition of the stimulus less attention is given to the same type of input. The mind chases novelties. The same happens to me with the feed of the blog I read. As soon as a blog has been discovered I follow its articles with interest, then tend to look through them quickly. I would not want to “evaporate” my friends’ messages in the same way.

Giving news regarding myself on Facebook makes me become lazier and having an excuse for not contacting people personally. And what about those who aren’t on Facebook? Most of my friends are not on Facebook and sometimes they do not even use the Internet. Since there is a limit to the time which one can dedicate to communications, those inevitably get penalized.

The really important news of my friends, including those who are on Facebook, anyway did not come through Facebook: they reached me by direct contact, on the phone or by email. In any case I’ll play the game of Facebook more, but I could decide to stop at any moment by sending a note to my contacts. Apart from the above-mentioned reason, it would be enough for me not to be connected to a fast Internet line for some time to make me lose the will to wait for minutes for looking through mostly banalities, with all the respect I have for my friends.

Facebook undoubtedly is the best engineered social network site, nevertheless I foresee the fall of its popularity as it has happened with other very popular sites such as Second Life or MySpace. Facebook will be more persistent than the others because it is linked to people we know in real life. But as the mind has constructed the game of Facebook, the mind will dismantle it. The mind loses interest about everything, especially if something remains only on the mental plane. Facebook’s strength consists in being a bridge between the purely mental world and the world of real relationships. In this reciprocal exchange between the virtual and the real on one hand some virtual meetings can be “real-ized” but on the other hand real people can be “virtualized,” reducing them in our psyche to a small icon and a flow of bytes which scroll on the screen. Similarly, various appeals and different causes risk counting in the real world as much as a discussion between prisoners during the air hour.

All of what I have written was without considering the problems connected to privacy – which would be an alarming separate chapter.

Dopo una serie di resistenze a Facebook ho sperimentato con il social network per qualche mese. La prima resistenza che aveva era quella di presentare un “me stesso” uguale per tutte le persone nella mia lista di amici. Questo mi creava qualche perplessità. Mi piace la varietà umana e da sempre frequento persone delle più varie estrazioni: avventurieri, hippie, artisti, viaggiatori, terapisti, imprenditori, accademici, ricchi, poveri e creative miscele di queste nature. Essendo a mia volta composto da diverse personalità, tendo a mostrare le diverse sfeccettature della mia natura laddove queste possono trovare una corrispondenza. Inevitabilmente questo crea dei rapporti più intimi e personalizzati ma allo stesso tempo limitati da un sottinsieme della nostra personalità.

Con Facebook e il profilo pubblico che abbraccia la nostra persona in modo ampio, c’è stato quindi il timore di non essere riconosciuto “per come sono” dalle singole persone. Mi venne in mente Uno nessuno centomila, l’ultimo romanzo e capolavoro di Luigi Pirandello. Noi siamo fondamentalmente “uno”,  ma per i più delle persone non siamo “nessuno”, mentre di fronte alle moltitudini di persone che ci conoscono siamo “centomila”. Siamo una persona diversa agli occhi di ognuno. Senza andare nei livello spirituali in cui possiamo affermare che tutti quanti siamo in realtà “nessuno” e “tutto” nello stesso momento, rimanendo a livello di psicologia dell’ego e di oggetti di relazione, Facebook è un interessante esperimento.

In rete si è spesso anonimi in molti ambiti: nelle nostre navigazioni nel web, nei network sociali e nei forum perlopiù si usano identità che non ci identificano precisamente. Facebook è un tentativo di riunificare le diverse personalità e di dare un centro di coscienza alla frammentazione di personalità online. E’ un tentativo di superare, seppur a livello digitale, i vari oggetti di relazione. Facebook può rappresentare un’evoluzione rispetto alla ricerca adolescenziale della propria personalità, fase in cui si operano dei tentativi di darsi un’identità sperimentando con la vita e le persone e spesso nascondendosi dietro l’anonimato.

Quindi eccomi qui col “vero me stesso” su Facebook, uguale di fronte a tutti, a riunificare pezzi della mia storia e di conseguenza pezzi della mia psiche. Come sarà questo “io” pubblico? Come un minimo comune multiplo dove le mie relazioni e qualità umane si espandono creativamente tramite la condivisione con gli amici oppure sarà come un massimo comune divisore dove rimangono solo le caratteristiche comuni, quelle accettate dai più? Mi sembra a volte il primo e altre volte il secondo.

Quando nella comunità offline i rapporti umani sono sempre più distanti e formalizzati, dove è stato cementificato quasi tutto il territorio, dove i luoghi di condivisione non commerciali sono sempre più rari, dove il tempo stesso per gli incontri reali viene assorbito in modo crescente dai gadget tecnologici, Facebook è arrivato in soccorso per farci ritrovare un senso di appartenenza e rimanere in contatto con le persone.

La prima cosa che mi ha colpito era che Facebook mi proponeva di aggiornare il mio stato scrivendo in terza persona: “Ivo… “, che avrei potuto completare con “è andato in spiaggia”, “ha cenato con amici”, “sta scrivendo un articolo”, ecc.. Si scrive nella prospettiva degli altri, di essere visti e letti. La terza persona ha una doppia funzione. Da una parte porsi  in terza persona supporta l’osservazione interiore. Il fatto stesso di porsi dal punto di vista altrui aiuta la consapevolezza di noi stessi. Dall’altro lato, parlare in terza persona può alimentare ulteriormente l’ego, forse per il fatto stesso che parlando di noi stessi stiamo alimentando una attenzione che non è quella dell’osservazione interiore, ma quella dell’ego famelico di essere visto e riconosciuto.

Dopo un paio di mesi la proposta iniziale era “Cosa ti passa per la mente” (What’s on your mind?)
Facebook sta dando pià importanza alle funzioni tipo Twitter (“Twitter-like”), stimolando il flusso quasi in tempo reale di messagi associati al quotidiano.  La via della meditazione è quella di lasciare scorrere i pensieri e di non attaccarsi a questi. Dopo anni di lavoro su me stesso, una delle poche cose che ho imparato è che la mente secerne pensieri in continuazione, che la stragrancde maggioranza di questi non sono interessanti e che perlopiù neppure ci appartengono. Il più dei pensieri si presenta in forma di condizionamenti e di ripetizione di pensieri e parole altrui, con qualche variazione sul tema. Ora che inizio ad attaccarmi meno ai miei pensieri e che li lascio scorrere con una certa indifferenza, ecco che Facebook me li eleva a “notizia del giorno”. Va beh…

Comunque ho giocato un po’ con Facebook, scritto alcune note, presentato alcuni link, inserito qualche foto dei miei viaggi. A un certo punto mi è capitato di trovarmi in un’isola tropicale, facendo delle foto ed a pensare a come l’avrei presentata su Facebook. Invece di vivere la situazione con totalità, pensavo a come ritrarla e a ponerla all’interno di un media, allontanandomi dall’esperienza diretta a più livelli. Anche la mente che interferisce fa parte della totalità dell’esperienza e la accetto benvolentieri, ma quando esagera poi la metto in castigo.

Mi ricordo che da bimbo quando succedeva qualcosa di interessante a volte gli adulti mi dicevano “eh… pensa quando lo racconterai agli amici (o a casa)”. Questo mi faceva incazzare perchè mi toglieva dal flusso dell’attività, che fosse giocare o assistere ad uno spettacolo. Per molti anni non ho fatto foto dei miei viaggi e in qualche modo se da qualche anno le faccio è anche per la pressione della condivisione tramite Internet.

Ogni volta che mi connetto a Facebook scorro il flusso degli aggiornamenti degli amici. C’è chi scrive parecchie note al giorno, chi raramente, ci sono note divertenti, serie, appelli, un’amica scrive “dentro qualcosa muore”…. se lo scrive pubblicamente è una richiesta di condivisione, ma fa strano vedere scorrere questo messaggio insieme ad altre decine di segnalazione perlopiù ordinarie e talvolta banali. Conosco un po’ le  vicende di questa amica, non è il caso di rispondere pubblicamente per chiedere ulteriori approfondimenti ma allo stesso momento non mi va di usare Facebook come piattaforma email per mandare un messaggio personale. In questi modo saremo costretti ad entrare in Facebook per continuare un discorso che può avvenire molto più semplicemente tramite email. Scelgo di non mandare alcun commento o messaggio in Facebook, riservandomi di comunicare con lei in altri ambiti (comunque su Internet, via IM o email perché ci troviamo in nazioni diverse). Mi chiedo anche se sto evitando un contatto profondo, preso  a mia volta dalla valanga di superficialità.

Usando Facebook tendo a diminuire il contatto individuale. Più che comunicare, ho scoperto che stavo broadcasting, trasmettendo ad un’audience. Quasi quotidianamente l’audience aumenta, il numero degli amici si espande. L’effetto è seduttivo e gratificante per l’ego, ma è una cosa diversa comunicare ad un pubblico che comunicare ad una singola persona. Con ognuno c’è una storia e una relazione unica. Certo si possono mandare messaggi personalizzati anche con Facebook ma per quello è meglio un qualsiasi programma per mail, mentre Facebook da più enfasi ai messaggi pubblici. Come mailer uso Eudora, vecchio, ancora funzionale ed “ecologico”, che funziona anche con una connessione Internet lenta o via cellulare. Diversamente, le pagine di Facebook sono quasi impossibile da aprire con una connessione non ADSL.

Ho notato che dopo una cinquantina di “amici”, il flusso di messaggi diventa tale che si perde il senso e il loro valore. Tendo a scorrere i messaggi con il mouse come fossero le news di un quotidiano. Come quando tutti quanti suonano il clacson in alcune nazioni, si perde il significato del segnale, si anestetizza l’udito, diventa solo un sottofondo. Già McLuhan aveva rilevato come le tecnologie e i media sono tanto un’estensione quanto un’amputazione delle capacità del corpo/mente.

La mente per sua natura è fatta in modo che dopo un po’ cancella qualsiasi interesse, con la ripetizione dello stimolo si dà meno attenzione allo stesso tipo di input. La mente rincorre la novità. Mi succede lo stesso con i feed dei blog. Appena scoperto un blog seguo con interesse i suoi articoli poi tendo a scorrerli più velocemente. Non vorrei “evaporare” i messaggi dei miei amici allo stesso modo.

Dare qualche notizia di sé su Facebook mi porta anche ad impigrirmi e ad avere una buona scusa per non contattare personalmente le persone. E quelli che non sono su Facebook? la maggior parte de miei amici non sono su Facebook e talvolta neanche usano Internet. Poiché c’è un limite al tempo che si può dedicare alle comunicazioni, questi vengono inevitabilmente penalizzati.

Le notizie veramente importanti sui miei amici, anche quelli che sono su Facebook, non mi sono comunque arrivate da Facebook, sono giunte per contatto diretto, per telefono o qualche volta per email. In ogni caso continuerò il gioco di Facebook ancora, ma potrei anche decidere di smettere in ogni momento mandando una nota ai miei contatti. A parte i motivi sopraesposti, basterebbe che io non sia connesso ad una linea Internet veloce per un certo periodo per farmi passare la voglia di attendere minuti per scorrere le perlopiù banalità che si visualizzano sulle pagine, con tutto il risspetto che ho per i miei amici.

Facebook è senza dubbio il sito di social network meglio congegnato ma tuttavia prevedo un suo sboom di Facebook come per altri siti che erano in auge, tipo Second Life o Myspace. Facebook sarà più persistente di altri siti perché si aggancia a conoscenze vere. Ma così come la mente ha costruito il giochino di Facebook, la mente lo smonterà. La mente perde interesse su tutto, in particolare ciò che rimane solamente sul piano mentale. La forza di Facebook è quella di rappresentare un ponte tra un mondo puramente mentale e il mondo delle relazioni reali. In questo scambio reciproco tra virtuale e reale da una parte si possono “realizzare” alcuni incontri virtuali ma dall’altra si possono “virtualizzare” le persone reali, riducendole nella nostra psiche ad un’iconcina e un flusso di bytes che scorrono sullo schermo. Analogamente, i vari appelli e la varie cause rischiano di contare nel mondo reale quanto una discussione tra carcerati nell’ora d’aria.

Tutto ciò che ho scritto senza considerare i problemi legati alla privacy che sarebbero un preoccupante capitolo a parte.